10'

Da "La roba" al "Mastro-don Gesualdo": Verga e il "ciclo dei vinti"

Riassunto Mazzarò e Gesualdo

La modalità di lavoro di Giovanni Verga, nell’insieme della sua attività letteraria, condiziona in maniera evidente sia la ricca produzione di novelle da un lato, sia la produzione romanzesca dall’altro. In estrema sintesi, si può dire che “l’itinerario del Verga novelliere si può definire come una serie di tappe d’avvicinamento ai romanzi” 1. Ciò accade anche nel caso del Mastro-don Gesualdo (1888); soprattutto attraverso le Novelle rusticane (1883) che:

nella prospettiva del romanzo, si presentano come il risultato di un’indagine svolta dall’autore per individuare e mettere a fuoco le componenti e le motivazioni di un sistema sociale complesso e in rapida evoluzione 2.

Il mondo del Mastro - un mondo regolato dalla roba e dall’inseguimento del suo possesso - è soprattutto tratteggiato nei suoi motivi di fondo nella novella La roba.

Il parallelismo tra Mazzarò e Gesualdo

Il lavoro manuale

Evidenti, già a una prima lettura, sono i legami tra la figura di Mazzarò, il protagonista della novella, e la parabola di Mastro-don Gesualdo nel secondo romanzo del “ciclo dei vinti”. Come rileva ancora la studiosa Carla Riccardi “esiste un rapporto di tipo genetico” tra i due personaggi, e tra temi, motivi, scene che, dalla novella, “diventano matrici di episodi o interi capitoli del Mastro” 3. Il don Gesualdo che il lettore incontra all’inizio del romanzo è direttamente discendente dal Mazzarò della Roba: il personaggio, ora ricco, che ha costruito con un lavoro duro e costante il proprio patrimonio; è consapevole della durezza di questo percorso, ed opera solo e soltanto in funzione del mantenimento e dell’incremento delle sue ricchezze 4. Allo stesso modo, anche Gesualdo:

ne aveva portate delle pietre sulle spalle, prima di fabbricare quel magazzino! E ne aveva passati dei giorni senza pane, prima di possedere tutta quella roba! 5

Oltre che da questa attitudine, i due personaggi sono accomunati dal talento che permette loro di fare fruttare il lavoro manuale: aveva “la testa come un brillante” 6 Mazzarò, secondo la celebre espressione impiegata da Verga; “ha la testa fine quel mastro-don Gesualdo!” 7 esclama, producendo quasi un effetto di eco, il canonico all’inizio del romanzo.



Il rapporto con la “roba”

Padroni di così spettacolari fortune 8, i due personaggi vivono dunque in funzione della loro roba e del suo mantenimento. Mazzarò e Gesualdo perseguono il loro obiettivo con rigore e severità: nei confronti di se stessi e degli altri, soprattutto se questi sono dipendenti. Dalla frugalità della propria vita quotidiana all’abitudine di girare in maniera instancabile per i propri possedimenti a dirigere personalmente il lavoro, sono molte le somiglianze tra novella e romanzo. Il modus operandi di Mazzarò, che “dopo che ebbe fatta la sua roba, non mandava certo a dire se veniva a sorvegliare la messe, o la vendemmia, e quando, e come; ma capitava all’improvviso” 9, per così dire anticipa e collauda la scena dell’arrivo di don Gesualdo al cantiere; sorpresi i muratori a ripararsi dall’acquazzone, egli dà sfogo alla propria ira e alla propria angoscia di sciupare il denaro:

Bravi!... Mi piace!... Divertitevi! Tanto, la paga vi corre lo stesso!... Corpo di!... Sangue di!.... 10

È dunque, quello di questi due personaggi con la propria roba, un rapporto teso, angoscioso, al limite della mania, sempre funestato dalla paura della perdita. Lo si vede bene nella reazione che don Gesualdo ha di fronte all’incidente del crollo del ponte in costruzione. Egli, stravolto e furioso - cieco persino rispetto al pericolo della propria vita - si getta nel fango, per salvare almeno il materiale superstite; e, a chi cerca di calmarlo, risponde con “un’occhiataccia furibonda”:

Parla bene, lui... che non ha nulla da perdere!... 11

La "roba" è un’ossessione fino alla fine della vita dei due personaggi (o al finale della narrazione). Nella Roba, condannato dalla malattia, Mazzarò “uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: - Roba mia, vientene con me!” 12. L’episodio è ripreso nel romanzo: 

Allora, disperato di dover morire, si mise a bastonare anatre e tacchini, a strappar gemme e sementi. Avrebbe voluto distruggere d’un colpo tutto quel ben di Dio che aveva accumulato a poco a poco. Voleva che la sua roba se ne andasse con lui, disperata come lui. 13

ll racconto del crepuscolo della vita di don Gesualdo è, dunque, ereditato dalla rappresentazione novellistica della fine di Mazzarò. Tuttavia, emerge qui una differenza significativa: don Gesualdo morirà in città, tra le mura, da lui percepite come ostili, del palazzo del duca di Leya, il genero che già sta scialacquando le sue ricchezze.



La differenza tra novella e romanzo

La complessità di Mastro-don Gesualdo: il matrimonio e l’ascesa sociale

Il personaggio di don Gesualdo, infatti, pur essendo chiaramente anticipato da quello di Mazzarò, in parte pure se ne discosta. Soprattutto nella parte centrale del romanzo, Verga lo sviluppa nel senso di una maggiore complessità. Si potrebbe, sinteticamente, affermare che Mazzarò osservi in maniera integrale quel severo culto della roba che abbiamo descritto, e che questo è il suo tratto unico e tipico. Don Gesualdo, invece, pur mosso dalle stesse esigenze di custodia e perpetuazione del possesso del proprio patrimonio, segue direzioni che lo portano a deviare, e infine a sbandare, dall’imperativa legge dell’accumulo di Mazzarò. Don Gesualdo, pur dopo qualche ritrosia, si sposa con Bianca Trao. La ragione di questa scelta è quella della convenienza. Ma, allo stesso tempo, il matrimonio è un’infrazione rispetto alla rigida disciplina di Mazzarò, che “di donne non ne aveva mai avuto sulle spalle” 14. Un’infrazione, come rivela lo svolgimento della storia del romanzo, che, pur compiuta nella speranza di un’opportunità di promozione sociale, si rivela come una crepa nella condotta di don Gesualdo, a cui il denaro comincia a sfuggire proprio a partire da questa circostanza (si pensi alle ingenti spese per le cure rese necessarie della salute malferma di Bianca).

Il matrimonio con Bianca, in realtà, produce soprattutto un altro cedimento da parte di don Gesualdo: quello fatale per la messa in discussione della propria granitica “religione della roba”. Il canonico, cercando di convincere il protagonista al matrimonio, insiste:

Una giovane ch’è una perla, [...] e di famiglia primaria anche!... la quale vi farebbe imparentare con tutti i pezzi grossi del paese!... 15

Questo “valore aggiunto” di Bianca - che nella prima parte del romanzo sembra effettivamente tale, dotando don Gesualdo dell’arma di un blasone - si rivela la vera trappola in cui egli cade: il bisogno, e talvolta forse il vezzo, di aderire ad un nuovo e più elevato statuto sociale. Si pensi alle spese sostenute dal protagonista per il sontuoso matrimonio (per altro disertato con disprezzo dalla nobiltà della cittadina), e per l’arredamento della casa; denari spesi per un bisogno di ostentazione, ma nella realtà buttati per via del sistematico rifiuto opposto dai parenti di Bianca a conferire a don Gesualdo un autentico accesso al loro rango 16. Alla naturale e fisiologica custodia della roba, si sostituisce in don Gesualdo l’ambizione a primeggiare, in ricchezza e posizione sociale, rispetto a chi lo vuol escludere ed espellere:

In cuore gli si gonfiava un’insolita tenerezza, mentre l’aiutava a spettinarsi. Proprio le sue grosse mani che aiutavano una Trao, e si sentivano divenir leggere fra quei capelli fini! [...]
- Voglio che tu sii meglio di una regina, se andiamo d’accordo come dico io!... Tutto il paese sotto i piedi voglio metterti! 17

È la seconda, e più grave, infrazione al rigido codice di Mazzarò 18. Gesualdo non resiste alla tentazione di rivalsa e di ascesa nella considerazione sociale 19. Lo stesso desiderio che lo porterà ad accettare - dopo averlo ricevuto nella cornice, tutta d’immagine, del “salotto buono” 20  - la proposta di matrimonio da parte del duca di Leyra per la figlia Isabella. E proprio nella casa di questo egli morirà, schiacciato da un sentimento di soggezione e un senso di smarrimento, che sanciscono l’impossibilità di un suo vero ingresso nel mondo della nobiltà prima disprezzato. Solo alla fine, troppo tardi, “sentì di tornare un Motta": ma la distanza con la figlia è ormai incolmabile, con lei, una Trao, "diffidente, ostile, di un’altra pasta.” 21.


Gesualdo e il pessimismo di Verga

l Mastro-don Gesualdo, d’altra parte, rappresenta la prosecuzione, da parte di Giovanni Verga, di quello “studio sincero e appassionato” descritto nella Prefazione ai Malavoglia. Lo studio per quella “perturbazione” che agisce in tutti gli strati sociali, "come una vaga bramosìa dell’ignoto 22, vale a dire il desiderio di affrancarsi dalla propria condizione di nascita per accedere a una percepita come migliore. Così, don Gesualdo - un “mastro” fattosi ricco grazie al carattere per eccellenza della propria classe sociale: la capacità di fare fruttare il proprio lavoro - è trascinato da una tensione diversa, che farà di lui un “vinto”, facendolgi pagare cara l’infrazione al modello della più rigida condotta di Mazzarò. Il pessimismo antropologico di Verga, sempre più radicale con il passare degli anni, si riflette allora anche nel percorso creativo che rielabora la novella di Mazzarò nel Mastro-don Gesualdo: e alla fine in questa “civiltà della roba” 23 si intravede davvero poca luce.

Bibliografia essenziale:

- G. Verga, I grandi romanzi, Milano, Mondadori, 1972.
- Id., Tutte le novelle, Milano, Mondadori, 1979.
- Id., Mastro-don Gesualdo, a cura di G. Mazzacurati, Torino, EInaudi, 1998.

1 C. Riccardi, Introduzione a G. Verga, Tutte le novelle, Milano, Mondadori, 1979, p. XXIV.

2 Ivi, p. XXIII.

3 Ivi, p. XXIV.

4 G. Verga, La roba, in Tutte le novelle, Milano, Mondadori, 1979, p. 280: “[Mazzarò] aveva accumulato tutta quella roba, dove prima veniva da mattina a sera a zappare, a portare, a mietere; col sole, coll’acqua, col vento; senza scarpe ai piedi, e senza uno straccio di cappello”.

5 Id., Mastro-don Gesualdo, in I grandi romanzi, Milano, Mondadori, 1972, p. 367.

6 Id., La roba, cit., p. 280.

7 Id., Mastro-don Gesualdo, cit., p. 311.

8 Dalla rassegna dei possedimenti di Mazzarò, efficacemente resa attraverso il punto di vista del viandante in apertura de La roba, discendono con certezza le rappresentazioni della fortune di don Gesualdo, ad esempio nel capitolo IV del romanzo, in cui il protagonista si concede l’unico lusso della contemplazione serale dei propri terreni.

9 G. Verga, La roba, cit., p. 283.

10 Id., Mastro-don Gesualdo, cit., p. 353.

11 Ivi, p. 380.

12 Id., La roba, cit., p. 285.

13 Id., Mastro-don Gesualdo, cit., p. 665.

14 Id., La roba, cit., p. 281.

15 Id., Mastro-don Gesualdo, cit., p. 384.

16 “Ora che avete questa bella casa dovete fare un bel battesimo... con tutti i parenti... d’amore e d’accordo. Se no, perché li avrete spesi tanti denari?” (Ivi, p. 453).

17 Ivi, p. 432.

18 Id., La roba, p. 283: “Al barone non rimase altro che lo scudo di pietra ch’era prima sul portone, ed era la sola cosa che non avesse voluto vendere, dicendo a Mazzarò: - Questo solo, di tutta la mia roba, non fa per te. - Ed era vero; Mazzarò non sapeva che farsene, e non l’avrebbe pagato due baiocchi. Il barone gli dava ancora del tu, ma non gli dava più calci nel di dietro.”

19 Per un’idea della ferocia di questo meccanismo, si leggano le pagine dedicate a Isabellina in collegio: Id., Mastro don-Gesualdo, p. 532 e seguenti.

20 Ivi, p. 591.

21 Ivi, p. 684.

22 Id., I Malavoglia, in I grandi romanzi, cit., p. 5.

23  Su questo motivo, ci si limita a proporre uno spunto di analisi a livello lessicale, notando come il “linguaggio della roba” caratterizzi la lingua stessa dei personaggi: tutto è roba, tutto è commercio, persino nei modi di dire; e persino in punto di morte, quando don Gesualdo si accorge della propria prossima fine: “Voglio fare i miei conti con Domeneddio” (Id., Mastro-don Gesualdo, cit., p. 684).