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Benito Mussolini e la dittatura fascista: le "leggi fascistissime"

Dopo il discorso del 3 gennaio 1925, in cui il duce si assume di fatto la responsabilità del delitto Matteotti, in Italia si apre la fase di liquidazione e di sostanziale smantellamento dello stato liberale e delle connesse funzioni del Parlamento, per svoltare nettamente verso un regime autoritario e dittatoriale. Mussolini, con il sostegno dello squadrismo (e, dietro le quinte, di polizia e magistratura), ha ormai sconfitto le opposizioni e, con l’appoggio di Vittorio Emanuele III e della classe dirigente del paese (senza dimenticare il tacito assenso della Chiesa e delle gerarchie ecclesiastiche), può godere della massima libertà d’azione.
 
Le “leggi fascistissime” che caratterizzano il biennio 1925-1926 hanno così molti obiettivi, primo fra tutti la progressiva sovrapposizione e fusione tra il Fascismo e lo Stato italiano. In tal senso, il Presidente del Consiglio diventa un effettivo Capo del Governo, con più ampi poteri (anche di veto), mentre il potere legislativo e quello esecutivo sono ricondotti al Consiglio dei Ministri, svuotando il Parlamento della sua reale funzione. Sciolti i consigli comunali e provinciali, viene creata la figura del podestà, di nomina governativa, mentre sono estese le attività di controllo del dissenso attraverso prefetti e forze dell’ordine (l’OVRA, la polizia segreta fascista, viene appositamente creata nel 1930). La censura su quotidiani e mezzi di informazione conosce poi un’ulteriore stretta dopo i falliti attentati a Benito Mussolini tra 1925 e 1926; nel novembre di quello stesso anno, il cerchio si chiude con l’istituzione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, lo scioglimento di organizzazioni politico-sindacali “sovversive” o sospettate di antifascismo, l’istituzione del “confino” per i colpevoli di reati politici (tra cui molti comunisti, come Antonio Gramsci), cui non resta che darsi all’attività clandestina.
 
Passo finale della fascistizzazione della nazione è la trasformazione del Gran Consiglio del Fascismo nell’organo supremo dello Stato (9 dicembre 1928), che emana subito una nuova legge elettorale, abolendo ogni restante illusione di democrazia e di suffragio universale. Le elezioni plebiscitarie del 1929 (in cui è possibile solo approvare o rifiutare la lista nazionale di 409 candidati emanata dal Gran Consiglio, e senza nessuna tutela sulla segretezza del voto) diventano allora uno strumento di propaganda per l’affermazione della dittatura di Benito Mussolini.
 
La lezione è a cura del Laboratorio LAPSUS (Università degli Studi di Milano)
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L’occupazione fascista dello Stato e le "leggi fascistissime" del 1926


Dopo il discorso del 3 gennaio 1925, inizia una diversa fase nella storia del fascismo: la liquidazione del modello liberal-parlamentare e l’instaurazione di un regime pienamente autoritario. Sconfitte le opposizioni, occupate le principali città del Paese con le squadracce (grazie all’ausilio di polizia e magistratura), sostenuto dal Re, dalla classe dirigente e dalla tacita simpatia della Chiesa, Mussolini gode ormai di ampia libertà d’azione. Sono del biennio ’25-’26  le cosiddette “leggi fascistissime”, ovvero quei provvedimenti che portano alla progressiva sovrapposizione tra movimento fascista e Stato italiano.

 

 

Vediamole brevemente:

 

Trasformazione della figura del Presidente del Consiglio in Capo del Governo, con maggiori prerogative e potere di veto su tutte le attività del Consiglio dei Ministri. Sotto il Consiglio dei Ministri vengono riuniti i poteri esecutivo e legislativo, in particolare le leggi in materia costituzionale. Il Parlamento perde la sua funzione legislativa e di rappresentanza. “Tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato” diventa il nuovo principio del potere fascista.   In tal senso, viene riorganizzato anche l’apparato statale periferico: sciolti i consigli comunali e provinciali, ai rappresentanti di nomina elettiva vengono sostituiti funzionari nominati direttamente dal governo, i podestà. Inoltre, il Prefetto diventa la figura di vigilanza politica più importante e l’occhio dello Stato sul dissenso politico e sociale.

 

Si assiste a un crescente potere della polizia, dipendente direttamente da Mussolini e dal governo, alla quale viene affiancato un nucleo di polizia politica segreta (che nel ’30 diventerà l’OVRA). In seguito ai falliti attentati contro Mussolini del 4 novembre 1925 e del 31 ottobre 1926, viene lanciata una stretta repressiva senza precedenti: si consolida il controllo su stampa e mezzi d’informazione, sull’associazionismo civico, politico e sindacale. Si prendono misure contro i “fuoriusciti”, con sequestro e confisca dei beni, e si procede alla revisione di tutti i passaporti per l’estero.

 

Il 5 novembre ’26 vengono approvati i provvedimenti più duri: istituzione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato; scioglimento di tutte le organizzazioni politiche e sindacali considerate sovversive e antifasciste; reintroduzione della pena di morte; istituzione del confino e di specifici reati politici.


Repressione del dissenso e processi politici (1927-1928)

 

Dopo il 5 novembre ’26 proseguono gli atti di intimidazione violenta e gli arresti. La caccia all’attivista antifascista viene posta dal governo al primo posto nell’attività di Stato il 15 gennaio ’27 quando, parlando agli ufficiali dei carabinieri, indica all’Arma “come primo suo compito la lotta contro gli irriducibili nemici del regime”. L’attività poliziesca è affiancata dalla repressione giuridica dei tribunali ordinari. Si consolida inoltre l’epurazione amministrativa di quanti, negli organi dello Stato, sono considerati in odore di dissenso. La forza politica maggiormente perseguitata proprio perché considerata più pericolosa, è il Partito comunista. Gli attivisti del Partito comunista sono considerati i meglio organizzati e pronti a condizioni di lotte illegali. Nel corso del ’28 si svolge il cosiddetto “processone” contro il Comitato centrale del Partito comunista: tutti arrestati o costretti a riparare all’estero. Tuttavia, nonostante lo scioglimento, i comunisti mantengono le proprie strutture clandestinamente.

 

 

Il Gran Consiglio del Fascismo organo supremo dello Stato ed elezioni plebiscitarie del 1929

 

 

Istituito nel 1923 come organo direttivo del Pnf, il Gran Consiglio del Fascismo viene “costituzionalizzato” il 9 dicembre 1928 come organo supremo dello Stato. Questo provvedimento rappresenta il culmine dell’occupazione autoritaria dello Stato da parte del fascismo. Capo del Gran Consiglio è Mussolini, che possiede il pieno controllo sui membri e detiene l’ultima parola sulle decisioni discusse. Due le prerogative centrali riconosciute al Gran consiglio: il primato in tema di riforme costituzionale e in merito alla nomina del successore al trono reale.

 

La prima riforma adottata dal nuovo organo è l’adozione di una nuova legge elettorale, che elimina definitivamente il principio democratico del suffragio universale. Prevede, infatti, la presenza di un’unica lista nazionale di 409 candidati, scelti direttamente dal Gran Consiglio su indicazione delle corporazioni, e di un’unica domanda sulla scheda: “Approvate voi la lista scelta dal Gran consiglio nazionale del fascismo?”. E’ ufficiosamente permesso votare solo per il “Sì”, in un clima di intimidazioni e di palese violazione del principio di segretezza del voto. L’evento elettorale si trasforma dunque in mero strumento di propaganda e assume le caratteristiche di un plebiscito verso il regime. Nonostante il trionfo del fascismo, però, durante le prime elezioni del ’29 il “Sì” trova di fronte a sé un ultimo colpo di coda del dissenso elettorale con una significativa presenza di “No”, schede cancellate ed astensione.

 

 

L’antifascismo alla svolta: dall’opposizione legale alla resistenza clandestina

 

 

Per quanto riguarda il fronte antifascista, la repressione di fine anni Venti rende impraticabile il dissenso legale e costringe le opposizioni a un bivio: espatriare e costruire l’opposizione all’estero, mobilitando l’opinione pubblica internazionale e politicizzando le comunità italiane immigrate in senso antifascista; oppure restare in patria e scegliere la lotta clandestina. La maggioranza delle forze politiche democratiche, cioè liberali, repubblicani, socialisti e cattolici sociali, sceglie la prima strada. I comunisti, invece, pur avendo basi d’appoggio all’estero (come nella Russia sovietica), rimangono l’unica organizzazione con solide strutture adatte alla lotta clandestina e alla resistenza illegale. La formazione repubblicano-radicale di "Giustizia e Libertà" costituisce un caso a parte: con una forte presenza di espatriati in Francia, rappresenta l’unica forza non comunista a mantenere dei propri nuclei clandestini in Italia, per quanto ridotti e poco attivi nella fase iniziale della lotta.