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Alessandro Manzoni, la revisione del romanzo e il disagio verso la tradizione

Una vera e propria lotta sembra caratterizzare la profonda revisione del romanzo che porta Manzoni dal Fermo e Lucia a I promessi sposi nella versione definitiva del 1840; una lotta contro la “Letteratura”, quella, per così dire, con la “L” maiuscola, cioè contro quell’insieme di convenzioni codificate e tradizionali che nel giudizio dell’autore costituiscono un impedimento clamoroso a realizzare quel progetto di rinnovamento delle forme letterarie teso a tentare di superare il diaframma tra realtà e letteratura, e che costituisce appunto il limite di ogni traduzione - in forme letterariamente atteggiate - del dato reale.

 

In effetti l’elezione a protagonisti di “gente meccaniche e di piccol affare”, la scelta della Storia come presupposto narrativo ma considerata dalla prospettiva del “basso” e del quotidiano dei protagonisti, la volontà insomma di denunciare lo scandalo del silenzio della Storia (e, indirettamente, della Letteratura) per cui, come viene detto nel Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia alla conclusione del capitolo II:

 

[...] un’immensa moltitudine d’uomini, una serie di generazioni, che passa sulla terra, sulla sua terra, inosservata, senza lasciarci traccia, è un tristo ma importante fenomeno; e le cagioni di un tal silenzio possono riuscire ancor più istruttive che molte scoperte di fatto. 

Tutto questo insomma reclamava la messa a punto di strumenti linguistici, stilistici ed espressivi per i quali Manzoni aveva ben scarsi appigli nella storia letteraria italiana, e pochi punti di riferimento anche all’interno della letteratura europea.


In tale prospettiva la considerazione del complesso e articolato lavoro di correzione che rielabora il romanzo nelle tre redazioni costituisce uno strumento fondamentale per la comprensione delle ragioni e dei motivi profondi che animano la scrittura manzoniana; una scrittura che prosegue per riorganizzazioni e, soprattutto, eliminazioni progressive, sino a ritorcersi contro se stessa e, in definitiva, a pervenire al proprio annientamento nell’opzione del silenzio letterario, con cui Manzoni chiude il suo grande periodo di creatività dal 1812 al 1827. Dunque per avviare un’analisi di questi aspetti e suggerire delle tracce attraverso le quali tentare di chiarire le ragioni di tale attività, un punto assai utile di partenza è costituito proprio dal capitolo conclusivo del romanzo, nell’edizione definitiva del 1840. Una conclusione che, in certo senso, non conclude, e che infatti manca (per come essa si presenta nella forma definitiva della "Quarantana") nel Fermo e Lucia, dove tutto invece risulta più definito e più esplicito. Una conclusione che, preceduta dalla morte di don Ferrante alla fine del XXXVII capitolo, si presenta dopo la fine della storia “romanzesca” vera e propria, e che dunque viene esposta quando, sostanzialmente, non c’è più nulla da raccontare, quando si ritorna alla dimensione del quotidiano e viene di conseguenza a mancare quel requisito di “eccezionalità” (per quanto minima a livello della storia di due oscuri e comuni sposi promessi) che aveva sempre costituito il pre-requisito fondamentale che giustificava un qualsiasi atto narrativo, per lo meno fin da quando un’“ira funesta”, a seguito di un torto patito, aveva giustificato la narrazione, e focalizzato l’attenzione, relativamente ai campioni di un esercito acheo e di un esercito troiano e ai loro compagni sulla piana di Troia.