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La poetica del "Ciclo di Aspasia" in "A se stesso"

Parafrasi Analisi La poetica del "Ciclo di Aspasia"

A se stesso è il componimento che chiude il "Ciclo di Aspasia", composto da Il pensiero dominante, Amore e morte, Consalvo e Aspasia. La poesia - la cui più probabile datazione è attorno al 1833 - si differenzia dalle altre quattro anzitutto per lunghezza, proponendosi come uno dei testi più brevi di tutta la raccolta. È forse anche il canto più equilibrato e denso di questo gruppo, giudicando la critica letteraria, da Carducci in poi, il Consalvo come una prova infelice e gli altri testi non esenti da qualche cedimento sentimentale o da eccessivi indugi su toni erotico-patetici. A se stesso invece, con i suoi sedici versi, prorompe come una prova eccezionale, capace di condensare con un lessico scarno e reiterante e con una nuova sintassi - franta e spezzata, snodata su proposizioni martellanti e su un uso insistito dell’enjambement - il momento più profondo della disperazione del poeta, che si congeda con questi pochi versi anche dal mondo delle illusioni, più volte dichiarate come l’unica essenziale e reale ragione di vita di ogni individuo. In questa poesia cade “l’inganno estremo”, ossia l’ultima illusione, quella amorosa. Leopardi si riferisce alla delusione sentimentale ricevuta dall’amata Fanny Targioni Tozzetti, ma critici come Walter Binni sostengono che il bersaglio più vero sia, ancora una volta, al di là di motivi biografici senz’altro presenti, la Natura 1.

Nel canto si respira una forte tensione eroica, ben diversa però da quella titanica di Bruto minore e de La sera del dì di festa, dove si assisteva a un tono di sfida protratto fino alla morte (“A me dintorno | le penne il bruno augello avido roti; | prema la fera, e il nembo | tratti l'ignota spoglia; | e l'aura il nome e la memoria accoglia”, Bruto Minore, vv. 116-120) e al grido di dolore scagliato nella notte (“Intanto io chieggo | quanto a viver mi resti, e qui per terra | mi getto, e grido, e fremo”, La sera del dì di festa, vv. 21-23). In A se stesso la sensazione è di un eroismo lucido e rassegnato, sdegnato e superiore, che non si spinge più a urlare la propria protesta e il proprio dolore, ma si chiude definitivamente nel nome di un rifiuto assoluto e totale:

[...] disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l’infinita vanità del tutto 2.

(A se stesso, vv. 13-16)

Se l’amore nel suo momento apicale era stato cantato nel Pensiero dominante e in Amore e morte - ma si era già a più riprese affacciato, con recupero memoriale, nei “grandi idilli”, oltre che nella splendida conclusione della Storia del genere umano e in altre operette  successive - con A se stesso il poeta si appresta a congedarsi dall’illusione “eterna”, senza più assumere contegni agonistici, ma affidando a frasi dal forte valore assertivo una resa alla morte delle illusioni e a un fato maligno dietro cui si intravede il profilo di Arimane 3. Questo commiato dalle illusioni non coincide ancora con la progettazione di una reazione dignitosa e ferma davanti alla Natura - e cioè una reazione che si spinga ad abbracciare una ragione illuministicamente intesa e a concepire una società pronta ad aggregarsi in “social catena” - come accadrà con La ginestra. E non coincide nemmeno con un rinnovato bisogno di contemplazione del vero (si ricordino a tal proposito i versi finali dell’Epistola al conte Carlo Pepoli: “che conosciuto, ancor che tristo, | ha suoi diletti il vero”, vv. 146-147). In A se stesso vi è solo una riduzione del sistema dell’universo a un male personificato e a una morte incombente e inevitabile, senza che si scorgano spiragli di nessun genere.

È proprio questa mancanza di luce che giustifica il tono tutto particolare del canto, che a differenza di altri componimenti del ciclo è completamente privo di sentimentalismi e accenti patetici. La freddezza, a volte glaciale, delle affermazioni esposte in frasi brevi, quasi giustapposte, non si traduce però in un’atmosfera priva di pathos, che invece dalle scelte stilistico-sintattiche, oltre che lessicali, viene assolutamente potenziata. Ancora oggi lo studio migliore su questo canto è quello di Angelo Monteverdi, che ha proceduto a un’interessante operazione di smontaggio del testo per meglio evidenziarne le strutture stilistiche 4. Egli osserva come la poesia, divisibile in tre parti di cinque versi ciascuna più il verso finale, abbia una architettura solida e animata da un’ininterrotta tensione. Tale tensione è generata dalle proposizioni brevissime, a volte di un’unica parola (“Perì”), prive di qualsiasi legame sintattico di coordinazione o subordinazione. Il lettore è così costretto a interporre continue pause nella pronuncia del testo, che assume un ritmo spezzato crescente, accentuato da forti enjambements (“Assai palpitasti”, “nessuna | i moti tuoi”, “amaro e noia | la vita” ecc.), con il risultato di creare potenti vibrazioni all’interno di una struttura piana e solo apparentemente algida. Va detto, infine, che queste scelte stilistiche riprendono, ma nello stesso tempo portano a più estreme conseguenze, procedimenti già attuati in altri canti (Amore e morte in particolare), a cui però si aggiungono novità assolute, come la scelta di un lessico oltremodo selezionato, che privilegia verbi e sostantivi dal valore universale (“terra”, “vita”, “gener”, “potere” ecc.) a scapito di aggettivi.

Anche da queste poche osservazioni è facile comprendere come la critica più recente abbia sentito l’urgente bisogno di riesaminare e valutare in maniera nuova i canti del "Ciclo di Aspasia", che risentivano ancora di un pesante giudizio negativo formulato dalla scuola crociana.

Bibliografia essenziale:

- W. Binni, La nuova poetica leopardiana, Sansoni, Firenze, 1997.
- A. Monteverdi, Scomposizione del canto “A se stesso”, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1967.
- C. Segre e C. Martignoni, Testi nella storia, vol. 3, Mondadori, Milano, 1992.

1 W. Binni, Dal “Pensiero dominante” a “A se stesso” in La nuova poetica leopardiana, Sansoni, Firenze, 1997 (ristampa), p. 155: “ma evidentemente l’oggetto della violenta protesta contro ogni retorica è la natura”

2  Giuseppe De Robertis scrive: “perché questa non è disperazione forte, ma stanca”. Recupero la citazione da C. Segre e C. Martignoni, Testi nella storia, vol. 3, Mondadori, Milano, 1992, p. 643.

3 L’Inno ad Arimane è rimasto incompiuto allo stato di abbozzo e risale proprio allo stesso anno della poesia (1833).

4 A. Monteverdi, Scomposizione del canto “A se stesso”, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1967.