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Platone, "Parmenide" e "Sofista": passi scelti

L’ampia trattazione della teoria delle Idee nella Repubblica non esaurisce affatto la riflessione platonica sulla dialettica e, più in generale, sulla conoscenza filosofica. Se già nel Fedro (la cui datazione è controversa, ma che gli studiosi tendono oggi a collocare a fianco della Repubblica) Platone, discutendo di amore, riprende le fila del suo discorso, altri interventi, collocabili nella fase della cosiddetta tarda maturità, sottopongono a revisione l’intero impianto concettuale elaborato dal filosofo ateniese.

 

Tradizionalmente, questi interventi sono collocati tra il terzo, infelice, viaggio in Italia (nel 361 a.C.) e il definitivo rientro ad Atene, dove Platone proseguirà l’attività di ricerca all’Accademia fino all’anno di morte (che cade tra il 348 e il 347 a.C.). Se questa seria di dialoghi si apre con il Teeteto, due in particolare sono i testi che riesamino più in profondità la dialettica platonica. Nel primo, intitolato Parmenide, Platone discute dal punto di vista teorico la staticità e l'immutabilità del mondo delle Idee, che in tal senso si contrapporrebbero (come l’Essere parmenideo) alla molteplicità del divenire. Ovviamente, è proprio il filosofo di Elea a muovere alcune obiezioni alla teoria platonica, concentrandosi in particolar modo sul rapporto di somiglianza che intercorre tra oggetti ed idee. Ecco un estratto del dialogo tra Socrate e Parmenide:

 

"Ma questo discorso", disse, "non ha senso. Piuttosto, Parmenide, mi sembra che la questione si ponga in questi termini: tali specie come modelli stanno in natura, e le altre cose assomigliano a queste specie e sono delle copie, e la stessa partecipazione delle altre cose alle specie altro non è che l'essere ad esse somigliante". "Se qualcosa", disse, "assomiglia alla specie, può quella specie non essere simile alla cosa rappresentata, nella misura in cui questa cosa è rappresentata a somiglianza di essa? O vi è un modo per cui il simile non sia simile al simile?" "Non c'è". "Non vi è forse assoluta necessità che una cosa che assomigli ad un'altra partecipi di un'unica identica specie?" "Necessario". "Non sarà la specie stessa quella cosa di cui i simili, prendendovi parte, sono simili?" "Certamente". "Non è possibile che qualcosa sia simile alla specie, né che la specie sia simile ad altro: altrimenti accanto alla specie comparirà sempre un'altra specie, e se quella è simile a qualcosa, un'altra ancora, e mai cesserà di generarsi sempre una specie nuova, se la specie è simile a ciò che di essa stessa prende parte". "Quello che dici è verissimo". "Non è dunque in virtù della somiglianza che le altre cose partecipano delle specie, ma bisogna ricercare un altro modo in cui prendono parte".

Parmenide insomma contesta una delle tesi centrali della Repubblica: le cose che noi osserviamo partecipano all’idea che loro corrisponde in maniera completa o solo con parte di essa? Nell’uno o nell’altro caso, emerge una contraddizione: o l’”uno” coincide con il “molteplice”, oppure l’idea è, allo stesso tempo, una e divisibile in parti. Il Parmenide, confermando la problematicità della riflessione di Platone, non consegna al suo lettore una risposta sicura: il Sofista deve allora rielaborare ulteriormente la teoria originaria. Il mondo delle idee, in un certo senso, si complica e si arricchisce, per provare ad aderire meglio al mondo reale in divenire, perdendo quindi l’immobilità originaria che lo contraddistingueva.

 

Come viene affermato anche nel Politico (altro dialogo della vecchiaia), le idee si articolano tra quelle universali e quelle particolari, ad esse subordinate, secondo un procedimento definito della diairesis (appunto, “separazione”) che si oppone a quello della “sinossi”, che appunto riconduceva la molteplicità del reale all’unicità esclusiva di ogni idea. Nel Sofista, è insomma il “parricidio di Parmenide” (secondo una fortunata definizione) ad aprire una nuova strada per il pensiero platonico. Nel dialogo, il tentativo di dare una definizione ad una triade di termini (“sofista”, “politico”, “filosofo”) vede interagire interagire tre figure: Teeteto, Teodoro e un fantomatico Straniero. Proprio quest’ultimo avanza la tesi (non affatto banale e scontata al tempo) che “dovremmo sostenere con forza che ciò che non è , in un certo senso, esso è pure e ciò che non è, a sua volta in un certo senso, non è”. E lo Straniero, poco oltre, ribadisce:

 

Non si dica, però che noi osiamo dire che il non-essere “sia”, intendendolo come il contrario dell’essere. Perché noi già da tempo abbiamo lasciato andare questo suo preteso contrario, sia oppure non sia, si possa o non si possa definire; in quanto al non-essere di cui ora abbiamo inteso affermare l’essere, o ci si persuada con la confutazione che non diciamo giusto, o finché non si riesca a far questo, si deve dire come diciamo noi: i generi si mescolano reciprocamente; l’essere e il diverso si espandono in tutti i generi e reciprocamente; il diverso, in quanto partecipa dell’essere, “è” per questa partecipazione, non già quell’essere di cui partecipa, ma uno diverso, ed essendo diverso dall’essere è, necessariamente e nel modo più chiaro, non-essere.