Manzoni, "Promessi Sposi", capitolo 34: riassunto e commento de "La madre di Cecilia"

Lettura e analisi del brano sulla madre di Cecilia, tratto dal capitolo XXXIV dei "Promessi Sposi" di Alessandro Manzoni, a cura di Alessandro Mazzini.

L'episodio della madre di Cecilia costituisce una risposta alla desolazione e all'inquietudine comunicate dalla descrizione della vigna di Renzo, presentando il ritorno del sacro e della civiltà.

Nella madre di Cecilia e nella sua volontà di dare tratti umani alla disumanità della morte si può riconoscere l'unica possibile risposta al caos della natura e della realtà. La coscienza umana, in quanto creatrice di civiltà, è in grado di opporsi al dominio delle pulsioni e delle barbarie.

Questa civiltà può trovare fondamento e forza solo in una prospettiva religiosa, in cui il segno di Dio non si pone mai negli eventi. Il vero miracolo avviene sempre nel cuore dell'uomo, e nella speranza di ciò che accadrà: Dio è presentato come colui che "tocca il cuore degli uomini".
La madre di Cecilia, quindi, rappresenta l'estrinsecazione della presenza di Dio nel cuore e della reazione dell'uomo al "tocco divino".

La bellezza della donna non dipende solo dalla natura, ma anche da uno specifico modo d'essere civilizzato. La madre di Cecilia è consapevole del suo dolore e del dolore che la circonda, e, nonostante questo, ha fede nel rito d'amore nei confronti della figlia deceduta. Questo atto di amore ravviva il sentimento umano. La madre, opponendo un rito civile al caos e al disordine, rende la morte a sua volta civilizzata ed estrema affermazione dell'umano.

Dalla scena toccante è influenzato anche il "turpe" monatto, la cui aggettivazione si contrappone alla dolcezza della descrizione. Il monatto è soggiogato dall'atmosfera sacrale di questo rito.

La peste è espressione della Provvidenza di Dio, la quale, sconvolgendo tutta la realtà, porta alla risoluzione delle vicende e al matrimonio tra Renzo e Lucia. Una "provvida sventura" che richiama il coro dell'atto quarto della tragedia "Adelchi". Il mistero della Provvidenza trova un significato nella risposta della coscienza dell'uomo. Le ultime parole della madre di Cecilia sono emblematiche di questo concetto: "Voi, disse, passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola".
La consapevolezza si fa rassegnazione, nell'accettazione della morte sua e della figlia e nella contrapposizione della ragione al caos della realtà che la circonda.

Alessandro Mazzini è professore di Greco e Latino presso il Liceo Classico Manzoni. Si è laureato in Letteratura Greca con il professore Dario Del Corno presso L'Università degli Studi di Milano. Ha collaborato con riviste di divulgazione culturale e ha insegnato per 10 anni Lingua e Letteratura Italiana e Lingua e Letteratura Greca presso il Liceo della Scuola Svizzera di Milano. Dal 2001 è ordinario di Italiano e Latino nei Licei e dal 2003 ordinario di Greco e Latino al Liceo Classico.

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Se l’episodio della vigna di Renzo rappresentava un’allegoria della natura abbandonata da Dio e abbandonata dalla civiltà umana e quindi vista nella sua inquietante, sconvolgente brutalità e sofferenza che questa comporta, l’episodio de “La madre di Cecilia” costruisce una risposta a quell’immagine di desolazione e di inquietudine. In effetti l’episodio vuole, in contrapposizione appunto, sia con la vigna di Renzo e il suo significato allegorico, sia con tutte le scene di morte e di abbruttimento umano che Renzo ha visto in Milano, devastata dalla peste, in questa sorta di viaggio infernale, in questa sorta di viaggio di conoscenza del male assoluto che è l’attraversamento della Milano piegata dalla peste di Renzo, ebbene, questo episodio de “La madre di Cecilia” vuole presentare in realtà il ritorno del sacro, il ritorno della civiltà, il ritorno dell’ordine, ma un sacro ordine, una civiltà voluti ed animati dalla coscienza dell’individuo. In effetti, nella madre di Cecilia e nella sua pervicace volontà di dare tratti umani alla disumanità della morte, noi riconosciamo l’unica possibile risposta al caos che la natura contiene e al volto orribile dell’esistenza che essa rivela, se abbandonata a se stessa. La coscienza umana è colei che, in quanto creatrice di civiltà, è in grado di ritualizzare il non senso e quindi di scrivere le regole di un rito che, in quanto tale, si contrappone al dominio delle pulsioni, al dominio della barbarie, alla violenza bruta della natura, e questa civiltà può trovare fondamento e forza solo in una prospettiva religiosa per Manzoni, ma una prospettiva religiosa in cui la fede in Dio – come avrà modo di osservare Manzoni in conclusione del romanzo, attraverso le apparentemente semplici parole di Lucia – una visione provvidenzialistica estremamente problematica, in quanto il miracolo, che può alimentare la fede in Dio, non è mai ciò che la realtà pone davanti allo sguardo dell’uomo. Il segno di Dio non si pone mai per Manzoni negli eventi, eventi che, anche quando sono oggetto di rappresentazione miracolistica (pensiamo all’aneddoto che si trova all’inizio del romanzo presentato da Fra Galdino sul miracolo delle noci) in realtà anche quando si può ritagliare nella realtà quotidiana una prospettiva miracolistica, Manzoni è molto attento a presentare questo come un’illusione del volontarismo umano. D’altra parte, non è un caso che, quando la volontà umana cerca di contrapporsi alle vicende, essa non soltanto è destinata alla sconfitta, ma spesso è anzi di intralcio a se stessa, basti pensare ai tentativi che Renzo fa per sposare Lucia, dopo che gli è stato impedito, e che non porteranno a nulla, quindi basti pensare al fatto che sia la reazione di Renzo sia la passività di Lucia costituiscono comunque risposte insufficienti. La realtà e le cose proseguono autonomamente ed indipendentemente dalla volontà umana, quindi segno di Dio non è mai, appunto, negli eventi, il miracolo, quando si presenta come tale negli eventi, non è altro che l’oggettivazione arbitraria di un assoluto che nel linguaggio si fa semplificazione, quindi mistificazione. Il vero miracolo avviene sempre nel cuore dell’uomo, il vero miracolo è nella speranza di ciò che accadrà e appunto in una prospettiva di fede. Non è un caso che, ogni volta che si parli con alta intenzione di Dio nel romanzo, è sempre presentato come "colui che tocca il cuore degli uomini". Questa infatti è l’espressione che più volte viene utilizzata a proposito, per esempio, dell’Innominato, e quando si prega, quando la preghiera è pura e degna di Dio perché Dio tocchi il cuore dell’uomo, come fa appunto Renzo insieme a Padre Cristoforo davanti a Don Rodrigo nel Lazzaretto, quindi il segno di Dio è sempre la sua presenza nella coscienza dell’uomo. D’altra parte, Manzoni – come abbiamo in precedenza sottolineato – vede agostinianamente negli abissi del cuore umano inscritta la legge di Dio e quindi è solo indagando nel guazzabuglio del cuore umano che si possono comprendere le supreme verità della fede: Dio agisce nel cuore e infatti “La madre di Cecilia” rappresenta proprio l’estrinsecazione della presenza di Dio nel cuore e quindi la reazione dell’uomo, la reazione che si esprime nella volontà di rifiutare il caos e di contrapporre il sigillo umano che, nella sua pienezza, è sigillo di Dio.

Scendeva dalla soglia d'uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo.

 La precisazione non è di secondaria importanza, la bellezza della madre di Cecilia è una bellezza che non dipende solo dalla natura, ma dipende da uno specifico modo d’essere, cioè da una cifra di civiltà, in questo caso la civiltà lombarda, appunto, quindi è una bellezza culturalizzata.

 La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d'averne sparse tante; c'era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un'anima tutta consapevole e presente a sentirlo.

 È infatti questo tipo di consapevolezza che, secondo Manzoni, è l’unica cosa che può giustificare il discorso letterario. La madre di Cecilia è consapevole del suo dolore e del dolore che la circonda e, nonostante questo, essa ha fede nel rito che sta compiendo, nel rito d’amore nei confronti della figlia. Prosegue poi il passo:

Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne' cuori.

 In effetti se l’orrore annienta i sentimenti umani, ecco che l’atto di pietas, l’atto d’amore, l’atto di fede, la consapevolezza del male ravvivano il sentimento umano.

Portava essa in collo una bambina di forse nov'anni, morta; ma tutta ben accomodata, co' capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l'avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio.

 Solo l’amore e la fede possono trasformare la morte in una festa e per questa festa, cioè per la determinazione di opporre un rito e quindi una regola di civiltà al caos, che la madre di Cecilia riempie di umanità la morte e, in questo modo, rende la morte non l’estrema negazione dell’uomo, ma l’estrema affermazione dell’umano.

 Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull'omero della madre, con un abbandono piú forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de' volti non n'avesse fatto fede, l'avrebbe detto chiaramente quello de' due ch'esprimeva ancora un sentimento.

 Dalla scena, particolarmente toccante, è influenzato anche il turpe monatto che nell’aggettivazione si contrappone alla solennità ed alla maestosità della scena, ma poi subito è descritto come soggiogato dalla situazione e promette di non torcere un cappello alla bambina, non tanto per la somma di denaro che, per fare questo servizio, la madre di Cecilia gli dona, ma in realtà proprio – dice l’autore – perché è soggiogato dall’atmosfera sacrale di questo rito a cui assiste. Non dimentichiamoci che proprio in queste pagine – precisamente nel capitolo 35 – quando Padre Cristoforo parlerà della peste, parlando con Renzo e scagliandosi contro la sua volontà di vendetta nei confronti di Don Rodrigo, Padre Cristoforo dirà: "Guarda chi è Colui che castiga! Colui che giudica, e non è giudicato! Colui che flagella e che perdona! Ma tu, verme della terra, tu vuoi far giustizia!". La peste è, in qualche modo, misteriosa, abissale espressione della provvidenza di Dio. Non bisogna dimenticare infatti che alla fine è la peste che, sconvolgendo sul piano del macrocosmo la realtà contemporanea, consentirà a Renzo e Lucia di sposarsi e quindi consentirà la risoluzione sul piano del microcosmo, quindi qui non si può non pensare a quella nozione di provvida sventura, che proprio nell’atto IV di Adelchi Manzoni aveva declinato ed aveva esposto. Qui il mistero dell’abisso della provvidenza umana trova un significato, non una spiegazione, ma un significato nella risposta della coscienza dell’uomo. Infatti, dopo che il monatto porta via Cecilia, ecco che il narratore torna sulla madre e sulle ultime parole che la madre pronuncia, dopo aver compiuto le sue tristi esequie.

Addio, Cecilia! Riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch'io pregherò per te e per gli altri". Poi voltatasi di nuovo al monatto, "voi," disse, "passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola.

 La consapevolezza si fa rassegnazione, questa donna insieme alla figlia che sopravvive attenderà la morte, attenderà di essere portata via dal monatto e, in qualche modo, provvede, come solo l’uomo può fare, razionalmente, anche a fronte del suo immenso dolore, a che sia in qualche modo istituito anche un rito per se stessa e per l’altra figlia, cioè dà razionali disposizioni sulla sua morte, quindi contrappone la ragione al caos che le sta davanti. Alla fine, quindi, la fede in Dio non è una risposta che risolve, semmai si configura pascalianamente come una sorta di scommessa ed è significativo, appunto, che a Lucia, alla semplice Lucia si affidi il “sugo della storia”, come lo chiama l’autore. Infatti, alla fine dei Promessi Sposi, nell’ultimo capitolo – il cap. 38 – davanti al moralismo di Renzo che, avanzato nell’età, si compiace di nominare tutto ciò che ha imparato nelle sue esperienze, in modo molto borghese, Lucia oppone il suo

"e io", disse un giorno al suo moralista, "cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai: son loro che sono venuti a cercar me. Quando non voleste dire," aggiunse, soavemente sorridendo, "che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene e di promettermi a voi."

 L’autore, a fronte di queste parole di Lucia, osserva:

Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta piú cauta e piú innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore.

 E qui subito vengono in mente i versi conclusivi del coro dell’atto IV di Adelchi della promessa di una felicità al di fuori della vita. Qui viene in mente la conclusione del Cinque maggio, in cui appunto, fuori dalla vita, c’è la speranza per Napoleone, qui si misura come la conclusione dei Promessi Sposi sia una conclusione che, sì, presenta un lieto fine, ma non un lieto fine in assoluto. Come ha osservato lo studioso Raimondi, il romanzo di Manzoni è un romanzo senza idillio perché in realtà la problematicità dell’esistere rimane intera, le differenze sociali dopo il caos e lo sconvolgimento della peste permangono. Non bisogna dimenticare che nell’accoglienza che verrà offerta agli sposi al castello da parte di Don Rodrigo, gli sposi e i loro invitati al banchetto pranzeranno da una parte, ma l’erede, Don Abbondio, dall’altra, per cui in realtà le differenziazioni sociali si ricompongono e l’ingiustizia della storia permane. La fede in Dio non è quindi un’assicurazione, non è una soluzione, la fede in Dio è un’attribuzione di senso.