6'

"Satira III" di Ariosto: analisi del testo e commento

Introduzione

 

La Satira III di Ariosto è indirizzata al cugino Annibale Malaguzzi, che vuole sapere come si trovi il poeta al servizio del duca Alfonso d’Este, dopo che egli ha abbandonato il cardinale Ippolito d’Este (come spiegato nella prima satira). Il cugino domanda, infatti, se sia meglio il nuovo lavoro rispetto a quello precedente, e il poeta risponde ironicamente che ciò che vorrebbe davvero è essere libero e non sottomesso: “io son di natura un rozzon lento: | senza molto pesar, dirò di botto | che un peso e l’altro ugualmente mi spiace, | e fòra meglio a nessun esser sotto” (vv. 6-9). La visione del mondo del poeta è sintetizzata poi in due famosi apologhi favolistici.

 

Riassunto e analisi della terza Satira

 

Come spesso accade nelle satire ariostesche, lo spunto è autobiografico e quotidiano, e sfrutta la finzione per cui ogni satira è strutturata come una lettera privata ad una persona cara, con cui il poeta può confessarsi liberamente 1. In questo caso, ragionando col cugino sulla propria “carriera” alla corte estense, Ariosto spiega innanzitutto che egli non ha potuto godere, in gioventù della libertà desiderata, perché non è nato figlio unico in una famiglia con un ricco patrimonio, ma, al contrario, è stato costretto a occuparsi dei suoi numerosi fratelli, a causa della morte del padre (che cade nel 1500, quando l’autore aveva ventisei anni). La professione dell’uomo di corte, coinvolto nelle missioni diplomatiche degli Estensi, è insomma un’alternativa alla povertà (vv. 21-27), ma Ariosto, al contrario di altri che considerano prestigiosa la carriera da cortigiano, la ritiene un atto servile:

So ben che dal parer dei più mi tolgo,
che ’l stare in corte stimano grandezza,
ch’io pel contrario a servitù rivolgo. 

Stiaci volentier dunque chi la apprezza;
fuor n'uscirò ben io, s'un dì il figliuolo
di Maia 2 vorrà usarmi gentilezza. 3.

Il poeta non desidera l’onore di servire un re, un papa, o qualche nobile, ma una vita tranquilla e libera 4. Rimane al servizio del duca per necessità e perché gli permette di stare a Ferrara e di viaggiare poco, così da potersi dedicare ai propri interessi, “volteggiando” (v. 66) sulle pagine scritte delle proprie opere (si pensi al lungo lavoro di revisione dell’Orlando furioso, che comincia proprio in questi anni) piuttosto che vedere “Inghelterra, Ongheria, Francia e Spagna” (v. 56).

L’autore giustifica anche il suo rifiuto a recarsi a Roma a servizio di papa Leone X (1475-1521), che, prima di diventare papa, gli aveva promesso una sistemazione. La spiegazione della sua scelta, che pure gli avrebbe permesso di migliorare il suo tenore di vita 5, è condotta attraverso il primo apologo 6 della Satira: un pastore, bisognoso di acqua per sé, la propria famiglia e il bestiame dato il periodo di siccità, trova una fonte, ma ha solo un piccolo vaso con cui attingervi. Stabilisce l’ordine con cui si sarebbero dovuti abbeverare familiari ed animali, in base ai loro meriti e alle loro necessità. Questi, per non essere gli ultimi, circondano il pastore, elencando i loro pregi e meriti. Una gazza, simbolo della poesia e per questo molto amata dal pastore, si accorge di non essere né sua parente, né grande fonte di guadagno, e per non morire di sete decide di trovare un nuovo ruscello in cui abbeverarsi 7. Viene così rappresentata la motivazione del mancato trasferimento a Roma di Ariosto: il papa Leone X ha molta gente da proteggere e il poeta, seppur amato, rischia di venir presto declassato e dimenticato 8 Ariosto, poi, ipotizza che, se anche il papa avesse mantenuto le sue promesse, facendo lavorare il poeta per lui, non avrebbe mai ottenuto la pace, la tranquillità e la felicità desiderata: ciò che egli sente come davvero necessario è una vita lontano dall’ambizione e dalla brama di potere e ricchezze.

Questa profonda convinzione personale è spiegata attraverso un secondo apologo, quello della gente primitiva che, vedendo la luna al sommo di un monte, si illude di possederla arrampicandosi sul rilievo (vv. 208-231) 9. La conclusione della breve storiella è emblematica dell’atteggiamento di Ariosto nei confronti delle illusioni di potere degli uomini

Questo monte è la ruota di Fortuna,
ne la cui cima il volgo ignaro pensa
ch'ogni quïete sia, né ve n'è alcuna. 

Se ne l'onor si trova o ne la immensa
ricchezza il contentarsi, i' loderei
non aver, se non qui, la voglia intensa;

ma se vediamo i papi e i re, che dèi
stimiamo in terra, star sempre in travaglio,
che sia contento in lor dir non potrei. 10

1 Significativo che, come nella prima Satira, anche qui lo scrittore ribadisca la propria coerenza: “Dimmi or c'ho rotto il dosso e, se 'l ti piace, | dimmi ch'io sia una rózza, e dimmi peggio: | insomma esser non so se non verace”, vv. 10-12.

2 il figliuolo di Maia: è Ermes, messaggero degli dei e divinità di oratori e poeti.

3 Satire, III, vv. 28-30.

4 Il paragone tra la propria vita ritirata e quella del mondo “ufficiale”, in accordo con lo stile medio e quotidiano delle Satire, è sviluppato con un’immagine culinaria ai vv. 40-49: “Chi brama onor di sprone o di capello, | serva re, duca, cardinale o papa; | io no, che poco curo questo e quello. | In casa mia mi sa meglio una rapa | ch'io cuoca, e cotta s'un stecco me inforco | e mondo, e spargo poi di acetto e sapa, | che all'altrui mensa tordo, starna o porco | selvaggio; e così sotto una vil coltre, | come di seta o d'oro, ben mi corco”.

5 Ivi, vv. 82-87: “S'io fossi andato a Roma, dirà alcuno, | a farmi uccellator de benefici, | preso alla rete n'avrei già più d'uno; | tanto più ch'ero degli antiqui amici | del papa, inanzi che virtude o sorte | lo sublimasse al sommo degli uffici; ”.

6 L’apologo, nella tradizione classica, è una breve favola, che vuole trasmettere un significato morale o allegorico. Ariosto lo definisce appunto “un essempio” (v. 107).

7 ”Questo una gazza, che già amata assai | fu dal padrone et in delizie avuta, | vedendo et ascoltando, gridò: «Guai! | Io non gli son parente, né venuta | a fare il pozzo, né di più guadagno | gli son per esser mai ch'io gli sia suta; | veggio che dietro alli altri mi rimagno: | morò di sete, quando non procacci | di trovar per mio scampo altro rigagno»” (vv. 142-150).

8 Nei versi successivi Ariosto racconta il suo infruttuoso tentativo di prendere servizio dal papa e di farsi concedere un beneficio ecclesiastico, che infine ottiene, ma dovendo pagare tutte le spese (vv. 178-183).

9 Il tema dalla pazzia umana, secondo Corrado Bologna, lega questo episodio, attraverso Leon Battista Alberti, al viaggio di Astolfo sulla Luna (Orlando furioso, XXXIV, ottave 72-85): “Infine, più noto di tutti, l’apologo dei pazzi che vogliono impadronirsi della luna [...], vera e propria ‘fiaba’ la cui tradizione risale alle Intercenales di Leon Battista Alberti, testo che Ariosto doveva conoscere e amare molto, dal momento che un diverso suo passo gli aveva ispirato un’altra fantasia lunare, quella del viaggio di Astolfo” (C. Bologna, Le “Satire” di Ludovico Ariosto, in Letteratura italiana. Le opere, a cura di A. Asor Rosa, Umanesimo e Rinascimento, Torino, Einaudi, 2007, p. 164.

10 Satire, III, vv. 229-237.