"In memoria" di Giuseppe Ungaretti: analisi del testo e commento

Lettura e commento della poesia "In memoria" di Giuseppe Ungaretti, a cura di Andrea Cortellessa.

In memoria nelle prime edizioni della raccolta Il porto sepolto appare isolata, all'inizio, come se si trattasse di una dedica. Viene poi integrata ne L'allegria, il cui tema centrale è rappresentato dalla guerra. Ed è proprio nella poesia di Ungaretti che la Prima Guerra Mondiale trova la sua interpretazione più memorabile.

In questo componimento, il poeta rievoca la tragica esistenza dell'egiziano Moammed Sceab, suo amico e compagno di stanza a Parigi all'albergo in rue des Carmes.
È questa una poesia fortemente autobiografica, come tutta la produzione del poeta, che identificava il proprio compito nello "scrivere una bella biografia", cioè sapere esprimere attraverso la poesia una vita pienamente vissuta.

Moammed Sceab è un esule e immigrato in un Paese straniero, a cui tenta con tutte le sue forze di adattarsi, cambiando anche il nome e perdendo così la sua identità. Questa perdita segna profondamente la sua figura, sospesa tra le sue tradizioni natie e il nuovo mondo in cui si trova a vivere, che non riesce a interiorizzare.
Moammed è l'alter ego, il doppio di Ungaretti, ma ciò che differenzia il poeta dall'amico è il canto, è la possibilità di esprime questa crisi d'identità attraverso la poesia.

Andrea Cortellessa è un critico letterario italiano, storico della letteratura e professore associato all'Università Roma Tre, dove insegna Letteratura Italiana Contemporanea e Letterature Comparate. Collabora con diverse riviste e quotidiani tra cui alfabeta2, il manifesto e La Stampa-Tuttolibri.

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In memoria

Locvizza il 30 settembre 1916

Si chiamava
Moammed Sceab


Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria
Amò la Francia
e mutò nome



Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè



E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono



L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa.



Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera



E forse io solo
so ancora
che visse

Moammed Sceab è la controfigura, il doppio di Ungaretti. Nelle prime edizioni de Il porto sepolto, questa poesia figura come isolata, all’inizio, come se fosse una sorta di dedica dell’intero libro e quindi, considerando che Il porto sepolto è in nucleo dell’intera poesia di Ungaretti, finisce per essere la sigla di tutta la sua opera poetica. Moammed Sceab è quell’Ungaretti che non ce l’ha fatta, quell’Ungaretti sommerso che sta di contro all’Ungaretti salvato, che canta, che sa sciogliere il canto del suo abbandono, a differenza di Moammed; tuttavia in quella Parigi, in quella bohème del 1912-1913 (Sceab si suicida effettivamente nel 1913), Moammed vive le contraddizioni dello stesso Ungaretti: esule, emigrato, privo di identità, privo della propria lingua, incapace di identificarsi nel Paese in cui tenta con tutte le sue forze di innestarsi sino a cambiare nome, sino a parlare la lingua dell’altra nazione. 

La perdita della propria identità, l’incapacità di vivere nella tenda dei suoi, nella tenda del Corano, segna profondamente questa figura. La differenza di Ungaretti rispetto a Moammed è il canto: quello che segna il destino di Moammed Sceab è che questo suo abbondono, questa sua incapacità di vivere, questa sua estraneità dal mondo di origine, ma anche questa sua estraneità nel mondo in cui cerca di integrarsi, non trova una sigla di canto, non trova una nota di canto. Ungaretti è Sceab con in più la capacità di cantare e, sin dall’inizio del suo percorso poetico, identifica il proprio dovere poetico nel cantare chi non può più farlo, nel cantare chi non è rimasto in vita a sciogliere il canto del proprio abbandono.

La poesia di Ungaretti è una poesia fortemente autobiografica. Tutta la sua opera sarà raccolta in Vita d’un uomo, ma già a cavallo tra gli anni ’30 e gli anni ’40 è scandita in vari volumi in cui, con il suo nuovo editore Mondadori, Ungaretti pubblica i suoi versi; già il titolo Vita d’un uomo allude a questa forte componente autobiografica; in fondo, nelle note conclusive della sua esistenza, Ungaretti diceva che “un poeta non deve far altro che scrivere una bella biografia”, dove “scrivere una bella biografia” significa vivere una bella vita, una vita piena di eventi e di esperienza (e non c’è dubbio che Ungaretti l’abbia vissuta), ma significa anche tradurla in un canto, in una formula, in una sigla poetica e musicale che la trasfiguri, che la riscatti, che la redimi; tutto ciò che Moammed non era stato capace di fare nell’appassito vicolo in discesa di Rue des Carmes, luogo parigino in cui è ambientata la poesia.

La poesia inaugura Il porto sepolto, cioè il primo libro di Ungaretti, il libro che si cala profondamente nella situazione. Un’altra grande novità della poesia di Ungaretti è questo essere calata nei luoghi e nei tempi in cui l’esistenza si è sviluppata, a partire dall’indicazione iniziale, "Locvizza il 30 settembre 1916", che è il luogo dove Ungaretti effettivamente ha composto questo componimento. È un luogo evidentemente segnato dalla situazione che sta vivendo: la prima guerra mondiale, la Grande Guerra, di cui L’Allegria, che sarà la versione completa e integrata de Il porto sepolto, è il grande libro non solo italiano, ma forse europeo. 

Quello sconvolgimento, quel trauma generazionale che i ventenni di tutto il mondo massacrò a centinaia di migliaia sul fronte occidentale, trova nella poesia di Ungaretti la sua interpretazione più memorabile, proprio perché capace di sciogliere i traumi, le ferite dell’esistenza, soggettiva e individuale come nel caso di Moammed, ma anche collettiva, politica e sociale come nel caso del popolo in armi, del popolo italiano buttato nel carnaio del Carso; tutto questo si deve sciogliere in una formula musicale: questa è la grande intuizione di Ungaretti e la grande novità del suo linguaggio che, dal punto di vista metrico e sintattico, è all’insegna dello spezzato. 

Nella musica del suo tempo, nella musica dei grandi autori del primo Novecento, non c’è più il flusso continuo della musica romantica e decadente, non c’è più la forza e l’impeto di un Wagner. La musica del primo Novecento è una musica di interruzioni, di intervalli che diventerà anche musica seriale, tonale. È musica di distacchi precisi. È quello che fa Ungaretti nei confronti della tradizione metrica italiana. I famosi versicoli, versi brevi, fatti di una sola parola (“patria”, “suicida”, “riposa”) sono versi che non seguono evidentemente la metrica tradizionale del nostro repertorio letterario, ma spezzettano questi stessi metri, queste stesse cadenze, questi stessi suoni in unità e segmenti molto più contratti. 

Il mondo della dispersione di Moammed Sceab, che è anche il mondo della distruzione e devastazione della guerra, trova una sua traduzione, una sua sigla e composizione musicale in questo canto ritmato e spezzato, in questa sorta di canto disgregato, sfracellato così come è disgregata e sfracellata la natura del Carso.