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Dante, "Così nel mio parlar voglio esser aspro": analisi e commento

Parafrasi Analisi

Già il primo verso di Così nel mio parlar voglio esser aspro ​- uno dei testi più noti delle Rime dantesche -  suona al tempo stesso come una dichiarazione di intenti e di poetica: nel momento in cui Dante si propone di descrivere una donna radicalmente antitetica rispetto alle ‘gentili’ donne stilnoviste, egli opta anche per uno stile e una forma che si adeguino alla novità del contenuto. Se il legame che lo unisce alla donna ‘petra’ è sempre amoroso, ben diverse sono le modalità con cui il poeta ce lo descrive: come ben spiegato da Gianfranco Contini - uno dei migliori interpreti della poesia ‘petrosa’ dantesca - la ‘trama’ della canzone è abbastanza chiara (G. Contini, Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1970) nella sua disposizione nelle sei strofe.

Nella prima stanza, infatti, il poeta paragona la sua donna ad un “petra”, una pietra che è simbolo di un legame sofferto, e di una personalità dura ed inscalfibile come il “diaspro” (v. 5); la stessa amata lo colpisce poi frecce che divengono “colpi mortali” (v. 10) per lo sventurato poeta. In netta antitesi con ogni dogma stilnovista (per cui, ad esempio, amore e cuore gentile “sono una cosa”, come appunto nel celebre sonetto dantesco), la donna-petra rifiuta a Dante qualsiasi clemenza (vv. 18-19), ed anzi quasi si compiace del tormento del poeta, cui viene meno anche la capacità stessa di comporre poesia (la sofferenza è tale che Alighieri “non potrebbe adequar rima”, v. 21). Anche la ricorrente omologia tra Amore e Morte (che vengono cioè posti in un rapporto di equivalenza tra loro) viene qui riformulata: nella terza stanza, Amore diventa quasi un demone malvagio che divora (“manduca” v. 18) il poeta, e lo uccide come già aveva fatto con la mitologica Didone, vittima di una passione illecita per Enea (come Dante stesso ricorderà nel V canto dell’Inferno). Drasticamente modificati sono anche i rapporti tra uomo e donna. Tra quinta e sesta stanza, Dante si abbandona ad una fantasia di sapore sadico: prima immagina la donna uccisa come lui da Amore, poi sogna di torturarla con quegli stessi “biondi capelli” (v. 63) che lo attraggono tanto. L’allusione sessuale, neanche troppo celata, diventa sempre più un capovolgimento degli stereotipi stilnovisti, tanto che Dante arriva a dichiarare che non sarebbe “pietoso né cortese” (v. 70), qualora potesse approfittare della disponibilità della sua donna-petra. Anche il congedo, cui tradizionalmente si affidava al proprio componimento il compito di recarsi a rendere omaggio alla propria signora, acquista qui tutt’altro tono: la canzone deve trafiggere il cuore di lei, soddisfacendo il desiderio di “vendetta” di un amante respinto.

La novità del contenuto si riflette poi sulla forma, assai complessa della canzone, e in particolar modo sulle scelte lessicali operate da Dante: se è naturale l’assenza dei termini canonici dello Stilnovo, colpisce la prevalenza di una terminologia concreta ed espressiva (in un breve e parziale elenco: “petra”, “faretra”, “arme”, “lima”, “scorza”, “borro”, “scudiscio e ferza”) spesso posta in rima - e cioè, in sede privilegiata; sul piano fonetico, la durezza della poesia ‘petrosa’ si traduce nella preferenza per suoni aspri e difficili, come quello - spesso utilizzato - della doppia -zz-.