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Le Cinque giornate di Milano e la Prima guerra d’indipendenza

Introduzione

 

Nell’arco di un anno, il 1848, una serie di rivoluzioni politiche sconvolge praticamente ogni paese del continente: esse non sono solo spinte dalla volontà di indipendenza di alcune nazioni, ma anche dal desiderio delle borghesie di tutto il continente di partecipare al governo dei rispettivi paesi e di godere delle libertà e dei diritti garantiti dal sistema costituzionale.

Dopo più di trenta anni il sistema della Restaurazione disegnato da Metternich crolla sotto i colpi dei moti di piazza e, proprio nell’anno in cui il potere del ministro austriaco giunge alla fine, l’Europa vede cambiare radicalmente la propria situazione politica.

 

Il 1848, un fenomeno su scala europea

 

Una tale ondata di insurrezioni che coinvolgono paesi dalle condizioni anche molto diverse tra loro può essere spiegata evidenziando una serie di cause strutturali comuni a tutto il continente.

Per quanto riguarda le cause economiche, si deve tener presente che l’Europa aveva assistito, nel biennio 1846/47, a una profonda recessione che, pur assorbita piuttosto velocemente negli anni successivi, aveva reso ancor più difficili le condizioni di vita nelle campagne, tanto da provocare, nelle zone più povere, alcuni casi di morte per inedia.

A ciò si deve aggiungere che in Gran Bretagna, il paese con il sistema produttivo più sviluppato, la Rivoluzione industrialeè ormai al culmine e ciò crea, oltre ad un incremento della ricchezza, anche l’accrescersi delle diseguaglianze e la creazione di un vasto proletariato urbano che, sebbene confinato in sobborghi-dormitorio, esprime sempre più esplicitamente il proprio malcontento per le condizioni oggettive in cui la nuova modernità lo costringe a vivere.

Sul piano culturale, il Romanticismo (nato in origine in contrapposizione all’Illuminismo e dunque avverso alla Rivoluzione Francese) coinvolge nella sua critica anche la società della Restaurazione; il principio di libertà, dapprima applicato alla sfera intima e sentimentale, si estende alla politica e si trasforma in insofferenza verso il principio di autorità, alla base del sistema europeo creato dal Congresso di Vienna. È in questa situazione filosofica e politica che germogliano tutte le idee che sono destinate a caratterizzare il successivo secolo e mezzo di storia europea: liberalismo, democrazia, anarchismo, nazionalismo e comunismo 1.

L’Italia è un paese economicamente arretrato rispetto alle potenze dell’Europa settentrionale, ma la sua società è interessata tanto da fermenti di natura sociale che da quelli di natura nazionale e indipendentistica: è quindi naturale che il 1848 sia un anno decisivo nella storia della penisola.

 

Le costituzioni negli Stati italiani

 

L’ondata rivoluzionaria del 1848 riguarda tutti gli Stati della penisola: il primo sovrano ad esserne interessato è Ferdinando II di Borbone, che deve far fronte dapprima all’insurrezione indipendentista e costituzionale siciliana del 12 gennaio, e poi concedere la carta a Napoli il 27 dello stesso mese. È immediatamente imitato da Leopoldo II di Toscana.

Nel Regno di Sardegna, l’arrivo della notizia della costituzione napoletana provoca grandi festeggiamenti in tutto il paese, anche perché si ignorano i problemi con la Sicilia 2. La generale atmosfera di effervescenza provoca addirittura una rivolta autonomista a Genova, poiché i liguri avevano mal sopportato l’annessione al Piemonte decisa a Vienna. L’evento che tuttavia determina un salto di qualità nelle iniziative del mondo liberale italiano è l’insurrezione parigina del febbraio 1848 contro la monarchia di Luigi Filippo d’Orléans: il contagio rivoluzionario si diffonde rapidamente in tutt’Europa e grandi manifestazioni sono organizzate perfino a Vienna, dove il giovane imperatore Francesco Giuseppe decide di allontanare definitivamente dalla politica il cancelliere Klemens von Metternich. Si tratta di un gesto altamente simbolico, poiché rappresenta la fine non solo di una carriera personale ma anche del ciclo politico iniziato con il congresso di trentatré anni prima. La Restaurazione non è più la forza egemone in Europa.

L’arrivo di tali notizie a sud delle Alpi fa sì che a Torino un gruppo di eminenti personalità liberali guidate da Camillo Benso conte di Cavour chieda ed ottenga una costituzione: lo Statuto Albertino, destinato a restare in vigore per quasi un secolo, è promulgato il 4 marzo 1848. Concedendo la carta, Carlo Alberto di Savoia Carignano diventa il punto di riferimento di tutti i liberali della penisola, che ormai guardano al Piemonte come allo Stato intorno al quale unificare la nazione 3.

 

La Repubblica di San Marco e le Cinque giornate di Milano

 

Lo Stato italiano che più direttamente risente delle vicende europee è però il Regno Lombardo-Veneto, che dipende direttamente dall’Impero d’Austria e dove il malcontento per la dominazione e la fiscalità straniera è sempre più diffuso. Già in gennaio la popolazione di Milano decide di attuare, come forma di ribellione passiva, uno “sciopero del fumo”: i milanesi rinunciano cioè ad acquistare e consumare tabacco poiché, essendo questo un monopolio di Stato, l’astensione avrebbe direttamente colpito le finanze austriache. A questa mossa il potere vicereale reagisce inviando nelle strade non solo i soldati delle caserme ma anche bande di malviventi prezzolati a provocare gli scioperanti fumando ostentatamente vistosi sigari e soffiando il fumo sul volto dei passanti. In seguito ai disordini le truppe austriache e croate si danno a veri e propri atti di saccheggio. Nella Corsia dei Servi una squadra di dragoni (un reparto specializzato della cavalleria austriaca) carica a sciabola sguainata la folla inerme causando circa dieci vittime; anche il podestà Gabrio Casati, che protestava per questi abusi, viene riconosciuto e malmenato.

Tanto il viceré 4 quanto l’imperatore, oltretutto, escludono nei loro comunicati qualsiasi ipotesi di costituzione e, dimenticando volutamente gli eccessi delle truppe, attribuiscono i disordini ad una ridotta fazione di facinorosi, rifiutandosi in tal modo di riconoscere le esigenze espresse dall’insieme della popolazione. Due nobili milanesi, i conti Martini e D’Adda, dopo vari colloqui con elementi rappresentativi della cittadinanza, partono per Torino con il compito di convincere Carlo Alberto a muovere guerra all’Austria per liberare il Lombardo-Veneto.

Il 18 gennaio numerosi arresti di patrioti, tra cui Daniele Manin e Nicolò Tommaseo, sono ordinati a Venezia, mentre nelle città universitarie di Pavia e Padova si moltiplicano gli scontri tra gli studenti e militari austriaci.

È facile immaginare l’effetto provocato su tutto il Lombardo Veneto dalla notizia delle insurrezioni di Vienna che avevano portato alla destituzione di Metternich: a Venezia il popolo libera dapprima Manin il 16 marzo, cinque giorni dopo, gli arsenalotti e le guardie civiche occupano l’Arsenale e, con le armi ivi conservate, costringono alla resa le forze militari austriache. Lo stesso giorno viene proclamata la Repubblica di San Marco, presieduta dal Manin ed avente come bandiera il tricolore italiano con, all’angolo, il leone alato della Serenissima. Le notizie di Vienna arrivano anche a Milano la sera del 17 marzo e provocano una divisione nel fronte patriottico meneghino: da un lato i moderati, che si riconoscono nella figura del podestà Gabrio Casati, contano sull’aiuto piemontese e vogliono limitare le iniziative a quelle necessarie per attirare l’intervento di Carlo Alberto, dall’altro i repubblicani, che si riconoscono nella figura di Carlo Cattaneo, non solo sono più pessimisti sull’esito dello scontro con le forze del maresciallo austriaco Josef Radetzky, ma sono anche certi che ad avvantaggiarsi di un’eventuale vittoria sarebbe esclusivamente il partito filopiemontese fautore di una monarchia costituzionale moderata.

La mattina del 18 marzo una grande manifestazione unitaria si riunisce al Broletto e, sotto la guida di Gabrio Casati, si reca dal governatore per domandare l’istituzione di un governo provvisorio, la creazione di una guardia civica, la liberazione dei detenuti politici, la concessione della libertà di stampa e la convocazione dei consigli comunali per nuove elezioni. La reazione delle guardie croate, tuttavia, fa degenerare la manifestazione, che invade con violenza il palazzo del governatore e costringe il vicegovernatore O’Donnel a firmare dei laconici decreti che, di fatto, consegnano alla guardia civica l’esclusiva sul mantenimento dell’ordine pubblico a Milano. L’autorità della monarchia asburgica è, a questo punto, rappresentata in città esclusivamente dal maresciallo Radetzky e, a differenza dei suoi omologhi civili, questi non è affatto disposto a cedere le proprie prerogative agli insorti. Il rifiuto dell’anziano generale di ricevere qualsiasi delegazione (malgrado il vicegovernatore sia di fatto ostaggio degli insorti) e la pretesa di sciogliere qualsiasi organo non approvato dall’autorità imperiale fa iniziare le ostilità tra i reggimenti austriaci e le forze cittadine.

In molti punti della capitale lombarda i civili erigono barricate e saccheggiano le armerie e le case patrizie per prepararsi al combattimento. Gran parte delle truppe di nazionalità italiana passano dalla parte degli insorti, mentre a combattere sotto le insegne asburgiche restano croati, tirolesi, austriaci e gran parte degli agenti di polizia che, benché italiani, sono consci dell’odio di cui sono oggetto tra la popolazione e intuiscono che il loro destino è legato alla conservazione della dinastia dominante. Nel pomeriggio del 18 marzo le truppe austriache riescono finalmente ad espugnare il palazzo del Broletto, sede dell’autorità comunale. Tuttavia Gabrio Casati e gli altri dirigenti rivoluzionari si sono già trasferiti altrove, mentre in ogni strada infuriano i combattimenti.

La guerriglia urbana prosegue nei giorni successivi ed un “comitato di guerra” istituito dalle autorità municipali permette di meglio ordinare gli sforzi bellici degli insorti, che nelle prime ore erano stati tanto generosi quanto caotici ed inconcludenti. Il 20 marzo il centro cittadino è quasi completamente libero dalle truppe austriache e i pochi battaglioni rimasti si ritirano tra le mura del Castello Sforzesco. I temibili cecchini dei “cacciatori tirolesi” sono snidati dalle guglie del Duomo, dalle quali nei primi giorni avevano fatto decine di vittime.

Il 21 marzo, La proposta di una tregua di quindici giorni avanzata da Radetzky viene respinta dalle autorità milanesi, poiché qualsiasi interruzione gioverebbe agli austriaci, che già attendono rinforzi da Verona, mentre i milanesi non possono contare che sulle bande armate che arrivano in loro aiuto dalle province e dai paesi circostanti. Lo stesso giorno gli insorti riescono a conquistare la munitissima caserma del Genio. Il 22 marzo, ultimo giorno di combattimenti, dopo la caduta delle caserme di San Simpliciano e San Vittore, i milanesi riescono a rompere l’assedio che li divideva dagli insorti provenienti dai dintorni nel combattimento di Porta Tosa 5.

Vista la situazione delle forze in campo, lo scarseggiare dei viveri, il morale delle truppe fiaccato da una guerriglia urbana più che mai sanguinosa 6 e il peggiorare delle insurrezioni nelle provincie, Radetzky deve accettare l’impossibilità di mantenere un presidio a Milano e, la sera del 22 marzo, dà l’ordine alle truppe austriache di ritirarsi all’interno del Quadrilatero, il sistema difensivo formato dalle fortezze di Peschiera, Mantova, Verona e Legnago. Onde non essere attaccato durante la ritirata, il generale austriaco porta via come ostaggi alcuni dei più facoltosi e conosciuti cittadini di Milano presi prigionieri durante i cinque giorni di combattimenti.

Nonostante i festeggiamenti dei milanesi dopo la cacciata degli austriaci dalla città, tutti sono consapevoli che la liberazione del Lombardo-Veneto può essere solo il frutto di una vera e propria campagna militare combattuta tramite battaglie campali e certamente i patrioti lombardi, per generosi che siano i loro sforzi, non ne hanno i mezzi. L’unica potenza che può ambire ad una simile impresa è l’esercito sardo di Carlo Alberto ed è dal suo comportamento che, a questo punto, dipende il futuro politico dell’Italia settentrionale.

 

L’inizio della Prima guerra d’indipendenza

 

La risposta di Carlo Alberto alle numerose sollecitazioni provenienti dalla Lombardia arriva il 23 marzo 1848: mentre gli ultimi battaglioni austriaci abbandonano le loro posizioni ad est di Milano, il re di Sardegna dichiara guerra all’Impero asburgico e muove le proprie truppe verso il confine orientale. A far decidere in tal senso il cinquantenne monarca torinese non è solo la volontà di espandere i propri possedimenti oltre il Ticino - secolare aspirazione di casa Savoia - ma anche la decisione di evitare insurrezioni all’interno del proprio regno ponendosi alla testa del movimento nazionale e liberale, impedendo così che esso si ponga obiettivi diversi dalla monarchia costituzionale e dal rispetto della proprietà e dell’ordine sociale. Anche per questo, prima di muovere il proprio esercito verso il Lombardo-Veneto, Carlo Alberto sostituisce simbolicamente al tradizionale vessillo azzurro del Regno di Sardegna il tricolore italiano recante, nella parte bianca, lo stemma della propria casata 7.

L’armata sabauda è ben presto affiancata da battaglioni (per lo più composti di volontari) provenienti dagli altri Stati della penisola. Lo Stato pontificio decide di contribuire all’impresa con un contingente di 16.000 regolari capitanati dal generale Durando, il Granducato di Toscana invia un contingente di 6.000 uomini, di cui 450 studenti volontari provenienti dalle Università di Pisa e Siena, il Regno delle Due Sicilie invia un corpo di 11.000 uomini comandati da Guglielmo Pepe. Le forze piemontesi avanzano verso il fiume Mincio e, entro la fine di marzo, si dispongono in linea retta di fronte al lato occidentale del Quadrilatero. Nonostante l’esercito sardo non abbia trovato praticamente alcuna resistenza in Lombardia, poiché gli austriaci sono intenzionati esclusivamente a difendere le proprie posizioni e rispondere alle iniziative sabaude, le operazioni vengono condotte con estrema lentezza, permettendo così a Radetzky non solo di riorganizzare le proprie forze all’interno delle fortezze ma anche di ricevere cospicui rinforzi attraverso il Brennero.

Il primo scontro tra i due eserciti avviene l’8 aprile a Goito, luogo di passaggio del Mincio, e, mentre gli austriaci si ritirano a Villafranca, i piemontesi prendono anche Monzambano e Valeggio. Il 30 aprile, grazie ad una carica di cavalleria efficace anche se pressoché fortuita, i piemontesi riescono a sfondare la testa di ponte austriaca a Pastrengo. La vittoria militare è tuttavia vanificata nei giorni seguenti da un attacco dimostrativo di Radetzky che, pur non rappresentando un pericolo per la linea sabauda, distoglie lo stato maggiore di Carlo Alberto dall’obiettivo di attraversare l’Adige.

Mentre le operazioni belliche proseguono, la situazione diplomatica cambia rapidamente. Il 29 aprile il pontefice Pio IX, che si rende rapidamente conto di non poter proseguire la guerra contro una grande potenza cattolica come l’Impero d’Austria senza perdere il consenso di moltissimi credenti conservatori e tradizionalisti in tutta Europa, sconfessa quindi l’invio del proprio contingente e dà occasione anche agli altri sovrani, in realtà da sempre poco convinti dell’appoggio a Carlo Alberto, di ritirarsi dall’impresa. Benché una parte dei contingenti dei rispettivi Stati decida di restare sui campi di battaglia (è il caso dei napoletani di Pepe e degli studenti toscani) questa mossa indebolisce fortemente il Regno di Sardegna e consente all’Austria di preparare la controffensiva verso la Lombardia. A far vacilalre le sorti della guerra è il fallimento piemontese nella conquista di Verona: a causa di incomprensioni tra i reparti, tutti gli sforzi profusi nella battaglia di Santa Lucia si rivelano vani e l’iniziativa della campagna militare passa definitivamente nelle mani dei generali asburgici.

Radetzky, ricevuti nel frattempo i rinforzi del generale Nugent, decide di attaccare il punto debole dello schieramento avversario per aggirare i piemontesi da sud e liberare Peschiera dall’assedio: le forze asburgiche si dirigono verso i comuni di Curtatone e Montanara dove, il 29 maggio, affrontano i corpi di volontari toscani e napoletani. Benché male armati e non addestrati all’uso delle armi, gli studenti degli atenei toscani, aiutati dai militari di professione granducali e napoletani, riescono a contenere per un’intera giornata le truppe austriache e, benché alla fine costretti a ritirarsi lasciando sul campo non pochi morti e molti feriti nelle mani del nemico, permettono ai piemontesi di ritirarsi oltre il Mincio e battere gli austriaci a Goito 8. Con l’arrivo dei rinforzi attraverso il Veneto, l’armata austriaca eguaglia per numero, nell’estate del 1848, quella del nemico piemontese, che tuttavia risulta divisa in due nuclei. L’attacco di Radetzky a Custoza nel luglio 1848 costringe le truppe piemontesi, ormai stanche e demoralizzate, alla ritirata definitiva fino all’armistizio di Salasco (9 agosto 1848) e all’abbandono di Milano alle forze austriache 9.

Sebbene l’armistizio preveda la completa restituzione del Lombardo-Veneto all’Austria, un’eccezione è rappresentata da Venezia che, ormai proclamatasi repubblica, riceve la notizia della sconfitta piemontese ma rifiuta di capitolare rimanendo sola ad affrontare gli austriaci.

 

La sconfitta piemontese e le conseguenze della guerra

 

Dopo il voto della Camera piemontese, Carlo Alberto decide di riprendere le ostilità contro l’Impero d’Austria il 20 marzo 1849: nei mesi precedenti aveva riorganizzato l’esercito, richiamato alcune classi di leva e meglio distribuito gli effettivi fino a ottenere un’armata di 115.000 individui, di cui 62.000 in prima linea.

Contrariamente all’inizio della prima campagna, nel 1849 è Radetzky ad entrare in territorio sabaudo quasi senza incontrare resistenza (grazie anche all’incompetenza del generale piemontese Girolamo Ramorino) e a conseguire una vittoria strategica a Mortara che costringe gli avversari a ripiegare verso nord. Grazie a questa manovra, le forze asburgiche guadagnano una netta superiorità numerica sul nemico e sconfiggono il resto dell’esercito piemontese a Novarail 23 marzo 1849. Vista la completa sconfitta, Carlo Alberto decide di abdicare al trono la sera stessa della battaglia di Novara.

L’indomani mattina il nuovo re Vittorio Emanuele II si reca a Vignale, un borgo pochi chilometri più a nord, per firmare l’armistizio con il maresciallo Radetzky: fino alla definitiva ratifica della pace gli austriaci occuperanno (pur insieme ai piemontesi) Alessandria e la Lomellina. La sconfitta piemontese causa un ritorno della Reazione in tutta la penisola italiana (nel Regno delle Due Sicilie la stagione costituzionale era autonomamente terminata dopo il 15 maggio 1848): Genova si solleva in base alla falsa voce che l’Austria avesse preteso l’abolizione dello Statuto Albertino. Nonostante i rivoltosi si arrendano dopo poche ore, il generale La Marmora ordina comunque il saccheggio. Dopo la fine delle operazioni, Venezia è lasciata sola a resistere al ritorno in forze degli austriaci: nella città lagunare sono confluiti tutti i repubblicani e i democratici della penisola, oltre al resto dei corpi di volontari pontifici e napoletani che avevano combattuto al fianco di Carlo Alberto. La cronica mancanza di viveri e munizioni, la superiorità di mezzi del nemico che tenta addirittura un bombardamento con palloni aerostatici, oltre a una forte epidemia di colera che decima i veneziani, costringono la città alla resa il 22 agosto 1849.

La stagione rivoluzionaria del 1848-1849 si conclude quindi con una sconfitta del movimento patriottico, poiché nessuna provincia italiana è stata liberata dalla dominazione straniera e, sui campi di battaglia, gli eserciti del re di Sardegna sono stati pesantemente sconfitti da quelli dell’Impero d’Austria. Se quindi dal punto di vista militare la prima guerra d’indipendenza si risolve in un nulla di fatto, è tuttavia altrettanto vero che il nuovo re Vittorio Emanuele II, mantenendo in vigore lo Statuto Albertino nonostante la sconfitta militare, non rinuncia all’avanzamento politico portato dalla stagione rivoluzionaria e consolida il ruolo assunto dal Piemonte come Stato leader del processo unitario.

1 Il 21 febbraio del 1848 Karl Marx e Friedrich Engels pubblicano a Londra il Manifesto del Partito Comunista, in cui i due delineano la visione materialistica della Storia e le tappe che avrebbero condotto l’umanità a superare il capitalismo e, dopo una fase di transizione socialista, a instaurare il comunismo, una società senza classi e senza governo.

2 Nel Regno di Sardegna infatti non si è a conoscenza della circostanza che, nonostante la mediazione inglese, la Sicilia non ha accettato la costituzione napoletana ed è in stato di ribellione.

3 Anche in Toscana, dove l’influenza austriaca è particolarmente forte, il granduca Leopoldo IIfirma lo “Statuto fondamentale” già il 15 febbraio. Benché il nome rimandi alle leggi di comuni medievali, si tratta a tutti gli effetti di una costituzione, ed ormai nella penisola sono sempre meno numerose le entità ancora rette da una monarchia assoluta.

4 Tutte le cariche del Lombardo Veneto sono di nomina imperiale e non elettiva: la costante scelta di elementi austro-tedeschi o comunque saldamente legati alla casa d’Asburgo comporta l’esclusione costante del patriziato locale (tanto quello milanese che dell’ex-oligarchia repubblicana di Venezia) alienando completamente il consenso di questi ceti, pur molto influenti nella società, al governo locale.

5 A partire dal 1861, il luogo è chiamato Porta Vittoria in ricordo dei fatti del 1848. Tra i più accaniti combattenti di questo scontro ci sono Luciano Manara ed Enrico Dandolo, entrambi destinati a morire un anno dopo nella difesa della Repubblica Romana.

6 Le truppe austriache avevano subito più di quattrocento perdite e lasciavano a Milano circa seicento uomini tra prigionieri e feriti.

7 Tale resterà la bandiera del Regno d’Italia fino al 1946.

8 Benché dal punto di vista militare la battaglia di Curtatone e Montanara rappresenti un evento secondario, essa è entrata nella mitologia risorgimentale non solo per l’eroismo dei giovani volontari toscani ma anche perché è emblematica dello sforzo di resistenza di tutte le popolazioni della penisola contro gli invasori stranieri.

9 Carlo Alberto decide di non difendere Milano per mancanza di munizioni, uomini e denaro, nonostante le richieste della popolazione. La delusione si trasforma presto in aperta contestazione e il sovrano piemontese è anche fatto oggetto di un colpo di fucile. A Vienna, al contrario, il rientro a Milano delle truppe austriache è festeggiato solennemente e in questa occasione il compositore Johann Strauss padre compone la celebre Marcia di Radetzky. Ben un terzo della popolazione della città lombarda decide di seguire l’esercito piemontese oltre il Ticino onde evitare di subire le rappresaglie degli austriaci ritornati padroni del campo.